La Liguria di Ponente sotto l’occupazione francese al tempo di Napoleone Bonaparte

 

La Repubblica di Genova ( e con essa tutta la Liguria) fu tra i primi Paesi a ricevere le notizie della RivoluzioneFrancese. A favorire la diffusione delle informazioni contribuivano sia la vicinanza geografica che il continuo muoversi delle persone, specie nelle zone del Ponente: naviganti che facevano il cabotaggio tra Liguria e Provenza o erano in contatto con loro comunità stabilitesi in Francia (tra essi si distinguevano alassini, laiguegliesi, sanremesi, ventimigliesi e portorini); contadini, artigiani e mercanti che per lavoro si spostavano continuamente da un lato all’altro di una frontiera che – a quei tempi – era molto meno rigida di quanto sarebbe stata nell’Ottocento e nel Novecento. Temevano la Rivoluzione le popolazioni liguri? Forse non tanto, visto che si trattava di gente dura, abituata da tempo ai problemi che potevano venire dal mare (i pirati barbareschi) o dall’entroterra (i piemontesi); e del resto dei grandi temi dibattuti a Parigi ben poco importava agli abitanti dei piccoli centri della Riviera. Nel 1792, però, la Francia era entrata in guerra – oltreché contro l’Austria e la Prussia – contro il Piemonte, e presto le sue truppe avevano occupato sia la Savoia, sia la contea di Nizza: questa era stata annessa alla Francia il 31 gennaio 1793, ed era subito divenuta – grazie alla presenza di accesi giacobini quali Cristoforo Saliceti e Augustin Robespierre, fratello del più famoso Maximilien – una centrale di propaganda rivoluzionaria che si indirizzava in primo luogo proprio alla Riviera ligure di Ponente. Frattanto Genova – che non amava la Francia repubblicana, ma faceva con essa buoni affari, e che amava ancor meno gli austriaci e i piemontesi, suoi tradizionali nemici – cercava ad ogni costo di mantenersi neutrale nel grande conflitto che si era acceso in Europa; ma non era certo in grado di opporsi militarmente a un’invasione, anche se sapeva bene che la Riviera di Ponente faceva gola, come punto strategico fondamentale, ad entrambe le parti in guerra. L’iniziativa la presero nell’aprile 1794 i francesi, che – col pretesto di attaccare le enclave piemontesi di Oneglia e Loano – occuparono tutta la costa da Ventimiglia a Savona e avanzarono nelle principali vallate (Roia, Argentina, Impero, Arroscia), le quali erano vie d’accesso al Piemonte ben più agevoli dei passi alpini. L’esercito era comandato dal vecchio generale Dumerbion, ma sotto di lui c’erano due giovani ufficiali destinati a una brillante carriera (il nizzardo Andrea Massena e il corso Napoleone Bonaparte, il quale ultimo era l’autore del piano di guerra), e gli stavano accanto in qualità di «commissari» o di agenti politici personaggi come il già citato Augustin Robespierre, o Filippo Buonarroti, che per più di quarant’anni sarebbe stato uno dei più famosi rivoluzionari europei. Proprio il Buonarroti si insediò a Oneglia come «commissario nazionale» dei territori occupati; e sotto di lui, per qualche mese, la città divenne una vera e propria capitale del robespierrismo: vi fu celebrata la festa dell’Ente Supremo, secondo la liturgia che Robespierre voleva sostituire a quella cattolica; vi si rifugiarono quasi tutti gli italiani che si proclamavano «giacobini»; vi furono create scuole rivoluzionarie per conquistare le masse ai nuovi princìpi. Poi a Parigi il colpo di Stato del 9 termidoro (27 luglio 1794) pose fine alla dittatura del Comitato di salute pubblica e ben presto liquidò anche la singolare esperienza di Oneglia. Non si fermò invece la guerra, né l’occupazione francese della Liguria occidentale, a cui non si opponeva minimamente il debole governo genovese, e nemmeno le
popolazioni, che pure per la maggior parte non ne erano contente e – dopo aver assaggiato le ruberie e le prepotenze delle truppe transalpine – avevano imparato a diffidare di una propaganda rivoluzionaria che proclamava «guerra ai castelli, pace alle capanne». Nella primavera del 1795 furono invece i «coalizzati», cioè gli austriaci e i piemontesi, che presero l’offensiva contro i francesi e riuscirono a scacciarli da molte località del Ponente e delle Alpi Marittime. Ma nell’autunno seguente i francesi tornarono all’attacco: tra il 23 e il 29 novembre si combatté la grande battaglia di Loano, nella quale il generale Schérer, comandante dell’Armée d’Italie, sbaragliò gli austro-piemontesi e penetrò a fondo nelle valli della Bormida e del Tanaro, senza peraltro forzare le posizioni nemiche fino alla pianura Padana. Errore gravissimo, annotò nel dicembre di quell’anno Bonaparte: errore che lui non avrebbe commesso l’anno dopo. Nominato il 2 marzo 1796, a neppure 27 anni, comandante dell’Armée d’Italie, il giovane generale corso tra il 12 e il 21 aprile – pur avendo a disposizione un esercito debole e male equipaggiato – con le battaglie di Montenotte, Millesimo e Dego spezzò il fronte nemico, separò le forze piemontesi da quelle austriache, batté le prime a Mondovì e costrinse il re di Sardegna a chiedere la pace. Poi incalzò le truppe asburgiche, le sconfisse al ponte di Lodi e il 15 maggio fece il suo ingresso trionfale a Milano.L’epopea napoleonica era cominciata: presto buona parte dell’Italia settentrionale cadde in potere del giovane generale, che cominciò a darle nuove forme politiche con la creazione della Repubblica Cispadana e poi della Cisalpina. E allora si capì che la Riviera di Ponente era stata una sorta di banco di prova dell’amministrazione rivoluzionaria, una scuola sperimentale – come ha scritto Nilo Calvini, il quale alla Liguria rivoluzionaria e napoleonica ha dedicato studi importanti – dove i francesi avevano imparato a comandare e a governare i popoli soggetti: una lezione che ben presto avrebbero applicato a mezza Europa.Intanto la guerra si era allontanata dalla Riviera, e pareva che la bufera rivoluzionaria potesse lasciare indenne la vecchia Repubblica di Genova. Questa il 9 ottobre 1796 aveva addirittura stipulato un trattato di alleanza con la Francia, tanto scandaloso agli occhi delle potenze europee quanto vantaggioso per lei. Ma nel giugno 1797 Bonaparte l’aveva costretta a «rigenerarsi», come allora si diceva, cioè a trasformarsi in un regime democratico – la Repubblica Ligure – ricalcato sul modello della costituzione francese del 1795. Finiva così il secolare predominio del patriziato genovese su tutta la Liguria, i liguri diventavano tutti «cittadini» con uguali diritti, le Riviere potevano eleggere i loro rappresentanti nel Corpo Legislativo e partecipare alla vita politica dello Stato. Il “mondo nuovo”, il progresso, l’égalité trionfavano anche nelle comunità del Ponente, che anzi si mostravano salde nell’abbracciare i nuovi princìpi: se a Genova, nelle valli del Bisagno e della Polcevera e in molte campagne della Riviera di Levante si erano verificate dopo il cambiamento di regime vaste insorgenze filoaristocratiche e sanfediste, il Ponente aveva rivelato un «ottimo spirito pubblico» – riferivano i documenti dell’epoca – e un’inaspettata fedeltà al governo democratico, al punto che di lì erano partite offerte spontanee di aiuto al governo stesso.Ben presto, tuttavia, la democrazia si era rivelata in larga misura un inganno. Bonaparte e i generali che gli succedettero al comando dell’Armée d’Italie avevano bisogno di denaro e rifornimenti, quindi non si fecero scrupolo di escogitare sempre nuove maniere per taglieggiare la Repubblica Ligure con i prestiti forzosi mai restituiti o le forniture militari non pagate; senza contare le ruberie commesse – con il tacito assenso dei loro comandanti – dalle truppe francesi che stazionavano nelle Riviere o che vi transitavano dirette verso la pianura Padana. Mentre la popolazione temeva per i propri beni e per la propria incolumità, il peso fiscale aumentò sensibilmente e ciononostante si aprì una voragine nei conti pubblici: quindi non solo fu impossibile realizzare le molte innovazioni promesse (riforma dell’istruzione e della giustizia, nuovi lavori pubblici, aiuti ai meno abbienti), ma ci fu anche un netto peggioramento rispetto ai tempi del governo aristocratico. Quest’ultimo – contro il quale non erano mancati proprio nel Ponente i “mugugni”, le opposizioni e persino un aperto episodio di ribellione come quello di Sanremo a metà del Settecento – aveva certo molti difetti e in particolare non faceva quasi nulla per promuovere l’economia delle sue province; ma in compenso era un regime “leggero”, con poche tasse e poca burocrazia, che lasciava ampi margini di autonomia alle comunità rivierasche. Invece la nuova democrazia si presentava col volto di uno Stato esigente ed esoso, pur non riuscendo a combinare nulla di positivo, anzi mostrandosi sempre più succube dei francesi. Di questa sudditanza nei confronti del padrone straniero erano le popolazioni a pagare il conto: i maggiori carichi fiscali affamavano le famiglie e soffocavano il commercio, i soldati vivevano a spese del paese. Sul finire del 1798, ad esempio, ben 50.000 coscritti francesi attraversarono la Riviera di Ponente diretti a Novi e in Lombardia, e toccò alla Liguria mantenerli. Peggio ancora era accaduto pochi mesi prima, quando Bonaparte, preparando la spedizione in Egitto, aveva requisito una gran quantità di bastimenti e di marinai, di cui molti non avrebbero più fatto ritorno. Intanto la guerra sui mari – quella di corsa soprattutto – ostacolava la navigazione di cabotaggio che per gli abitanti della Riviera era di vitale importanza, e cominciava allora una stagione difficile per la marineria ligure, soprattutto quella ponentina, che nel giro di una decina d’anni avrebbe subìto colpi durissimi. Gli intralci della guerra, infine, rendevano difficile l’approvvigionamento alimentare facendo balenare lo spettro della carestia. «I cinque sesti della popolazione non amano il sistema repubblicano e maledicono la rivoluzione», confessava l’ambasciatore francese a Genova.Una nuova guerra scoppiata nel marzo 1799 tra la Francia, l’Austria e la Russia raggiunse ben presto l’Italia: le truppe della République subirono ripetute sconfitte ad opera del maresciallo russo Suvorov e dovettero abbandonare tutta la penisola ad eccezione della Liguria, incalzate dagli eserciti regolari e dalle bande di insorgenti che si rivoltavano contro di loro. «I liguri sono l’unico popolo d’Italia che ancora non ci assassina», scriveva in quei giorni l’ambasciatore francese, ma avvertiva che quella felice eccezione non poteva durare a lungo. Infatti un’insorgenza scoppiò ai primi del maggio 1799 anche nella valle di Oneglia, dove gran parte della popolazione era rimasta fedele alla dinastia sabauda, e ben presto tutte le campagne della Riviera di Levante si rivoltarono sostenendo l’avanzata degli austro-russi, che nel corso dell’anno arrivarono ad occupare buona parte della regione. Poi gli avvenimenti presero un ritmo frenetico. Bonaparte, lasciato l’Egitto, tornò a Parigi e prese il potere con il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799). Genova ebbe anch’essa un “18 brumaio in sedicesimo” che mise fine al regime rappresentativo, a partire dall’aprile 1800 fu stretta d’assedio per terra dagli austriaci e per mare dagli inglesi – un assedio che costò alla città, fra fame e malattie, quasi 12.500 morti – e resistette fino al 4 giugno. Dieci giorni dopo, però, Bonaparte batteva a Marengo gli austriaci del maresciallo Melas e tornava padrone dell’Italia.3
La Riviera di Ponente – che per qualche mese era vissuta come sospesa in una terra di nessuno e soggetta a scorrerie di malviventi, vendette private, rivolte spontanee o repressioni improvvise da parte di qualche contingente francese – tornò sotto l’autorità di una Repubblica Ligure che nel frattempo aveva perso ogni connotato democratico ed era piombata in una sudditanza ancora più stretta nei confronti della Francia. Per due anni, di fatto, a comandare fu non un legittimo governo, bensì l’ambasciatore francese a Genova, alle dirette dipendenze del Primo Console. E per due anni le popolazioni della Riviera seguitarono a sopportare il passaggio delle truppe con tutti i costi e i disagi che ciò comportava, a pagare carissimi i generi di prima necessità, a vedere i bilanci delle loro municipalità e delle loro opere pie sempre più disastrati, a fare i conti con i problemi legati alla guerra marittima che ostacolava i commerci e creava disoccupazione diffusa. Bonaparte, in un ordine trasmesso al suo ministro della Guerra il 24 settembre 1800, aveva sostenuto: «L’intenzione del governo non è affatto che si tratti la Liguria come terra di conquista. Il popolo ligure è, tra tutti i popoli dell’Italia, quello che merita maggiori riguardi e che ha più sofferto». Ma questi buoni propositi non si erano tradotti in fatti concreti, e due mesi dopo la «Gazzetta nazionale della Liguria» – che pure era un giornale ultramoderato – aveva tracciato un quadro quanto mai tragico: «Nella Liguria tutti hanno perduto, tutti sono stati rovinati senza compenso alcuno. La nazion ligure ha fornito 170 bastimenti per la spedizione d’Egitto, che hanno motivato la dichiarazione di guerra degl’inglesi e dei coalizzati. Le sue campagne sono state devastate dal lungo soggiorno delle truppe. Essa ha esaurito tutte le risorse del governo e dei suoi cittadini per alimentare le armate francesi. Un blocco stretto e non interrotto ha finito di distruggere il suo commercio. Tutti i suoi bastimenti sono stati incendiati o predati dagl’inglesi o dai corsari. Una gran parte dei suoi abitanti è perita per l’epidemia e per la fame». Proprio la crisi demografica era il segno più evidente e drammatico: se Genova, specie al tempo dell’assedio, si era paurosamente svuotata di abitanti, anche le Riviere avevano subìto un salasso per l’alta mortalità e l’emigrazione. Non per nulla nel 1802 a un prete di Sanremo sarebbe venuto in mente di chiedere al governo che fosse «accordata ai religiosi dell’uno e l’altro sesso la facoltà d’unirsi in matrimonio», al fine di ripopolare un territorio sempre più spopolato.Come compenso a tante disgrazie, era certo ben poca cosa la definitiva annessione alla Repubblica Ligure dei territori già sabaudi di Loano e Oneglia, avvenuta nel giugno 1801. Di lì a poco, tra l’altro, lo stesso governo francese che aveva fatto questa concessione intavolò una trattativa – condotta da Giuseppe Bonaparte, fratello del Primo Console – per ottenere da Genova una parte almeno della Riviera di Ponente, promettendo in cambio altri ingrandimenti territoriali a nord e a levante. Era il primo segnale manifesto dell’interesse che la Francia napoleonica nutriva per le terre liguri più vicine alla propria frontiera (un interesse che in realtà, come attestano molti documenti, riguardava tutta la costa occidentale fino a Savona), ed è significativo che la diplomazia genovese ritenesse la trattativa possibile: quella porzione del suo «Dominio di Terraferma», come si diceva al tempo del governo aristocratico, era sempre stata la meno docile e la più riottosa, oltreché la più difficile da difendere dalle mire dei Savoia. Perché non sbarazzarsene, puntando invece su un allargamento in direzione della pianura Padana, della Lunigiana e della Toscana? Per allora, tuttavia, non se ne fece nulla.Nel febbraio 1801 la Francia aveva concluso la pace di Lunéville con l’Austria, che poco interessava alla Liguria; ma nel marzo 1802 giunse, ben più desiderata, la pace di Amiens con l’Inghilterra. Per una breve stagione ci si poté illudere che la fine delle 4
ostilità sui mari avrebbe permesso di ritrovare la relativa prosperità di cui le Riviere avevano goduto negli ultimi decenni dell’antico regime; e che la Repubblica Ligure avrebbe potuto darsi un solido assetto costituzionale, moderatamente innovativo rispetto ai tempi dell’aristocrazia, ma altrettanto pacifico. Una nuova costituzione in effetti fu promulgata il 24 giugno 1802: vi erano di nuovo contemplati, per le maggiori cariche di governo, gli antichi nomi di Doge e Senato; ma non era che una brutta copia della “carta” francese approvata dopo il 18 brumaio, e copriva malamente una realtà in cui a comandare erano ancora i plenipotenziari di Bonaparte, in particolare il nuovo ambasciatore, l’ex “terrorista” Cristoforo Saliceti. Questi prometteva pace e prosperità, ma intanto le sue istruzioni prevedevano per la Liguria, e in particolare per il Ponente, misure dolorose. La Francia sapeva di essere più debole sul mare rispetto ai propri potenziali nemici, e in particolare agli inglesi; riteneva perciò necessario coinvolgere le Riviere in una politica di rilancio della marina, soprattutto di quella militare, e farne la base per una nuova aggressività navale nel Mediterraneo. A partire dal giugno 1802, tra il governo genovese e quello francese cominciò una trattativa nella quale il primo chiedeva che la Francia proteggesse la navigazione ligure dai corsari e dai barbareschi, divenuti in quegli anni sempre più aggressivi; ma il secondo replicava che tale protezione poteva essere concessa solo a patto che sulla Riviera si iniziassero a costruire buoni vascelli da guerra e si reclutassero marinai per armarli. La marineria ponentina, che nonostante le difficoltà continuava ad essere cospicua e ad alimentare un notevole traffico di cabotaggio, aveva però da tempo trovato metodi più spicci per navigare con una relativa sicurezza anche in tempo di guerra. Le sue imbarcazioni inalberavano spesso non la bandiera genovese, ma quella di altre nazioni: in passato soprattutto della Francia (molti capitani e patroni di Sanremo, di Porto Maurizio e di Alassio e Laigueglia erano di casa nei porti provenzali, e alcuni avevano finito per risiedervi), ma ora sempre più spesso dell’Inghilterra. La diplomazia transalpina se ne preoccupava: «È indubbio che tra poco quasi tutto il commercio dei liguri si farà sotto bandiera inglese», scriveva preoccupato l’ambasciatore Saliceti. Da Parigi il ministro della Marina sosteneva d’altronde che la Francia non poteva permettersi di favorire e tutelare le navi della Riviera: «Se i liguri condividessero la sicurezza di cui godono i francesi nel Mediterraneo, i nostri naviganti non riuscirebbero a sostenerne la concorrenza: le loro navi hanno costi molto più bassi, e ben presto si impadronirebbero di tutto il cabotaggio del Mediterraneo». Per battere quei concorrenti, il ministro con un cinismo criminale chiedeva ai consoli e agli agenti francesi in Barberia e nel Levante di denunciare presso le autorità locali l’irregolarità delle navi rivierasche con bandiera inglese (in base alle norme internazionali una nave doveva avere il comandante e almeno metà dell’equipaggio della nazionalità di cui batteva bandiera), in modo che i corsari potessero predarle impunemente.Frattanto nel settembre 1802 era stata decisa l’annessione del Piemonte alla Repubblica Francese, e anche questo evento rappresentò un colpo per i commerci della Riviera di Ponente, perché la Francia s’era affrettata ad elevare tra Liguria e Piemonte una barriera doganale ben più rigida di quella del Regno di Sardegna. A partire dal maggio 1803, poi, ripresero le ostilità con l’Inghilterra. La Riviera non vi fu immediatamente coinvolta, quasi che gli inglesi fingessero di credere all’effettiva indipendenza della Repubblica Ligure e ne rispettassero la neutralità: per molti mesi sia le unità della Royal Navy, sia i corsari britannici evitarono ogni attacco alle imbarcazioni liguri, seguendo una strategia che intendeva ingraziarsi Genova e staccarla dall’alleanza con la Francia. Ma Parigi reagì in modo netto: pretese la chiusura dei porti liguri agli inglesi e alle loro mercanzie, proibì tassativamente l’uso delle bandiere inglesi sulle navi della Riviera, e mirò ad assicurarsi il pieno appoggio genovese nella guerra marittima. La marina britannica rispose bloccando i porti della Liguria e dando la caccia ai suoi navigli: era cominciata «una guerra disastrosa», come la definì un senatore genovese, dalla quale ai popoli della Riviera non potevano che derivare disoccupazione, miseria, morte.La guerra pesava anche sul bilancio dello Stato per le forti contribuzioni militari che bisognava pagare alla Francia, e quindi richiedevano nuovi cespiti d’entrata. Così nel luglio 1804 il governo ligure approvò un’imposta straordinaria sull’esportazione dei prodotti agricoli: in pratica si andava a colpire soprattutto l’olio d’oliva della Riviera di Ponente, l’unica derrata che alimentasse un cospicuo commercio verso un arco di costa esteso dalla Provenza a San Pietroburgo. Il dazio di quattro lire genovesi al barile incideva pesantemente sul prezzo e rendeva più ardua la concorrenza con gli oli forestieri, specie in un momento in cui le difficoltà della navigazione facevano lievitare i costi di trasporto. Il risultato fu una vasta sollevazione che interessò anzitutto la città di Porto Maurizio e parte della sua circoscrizione (che allora si chiamava appunto «degli Ulivi»), nella quale si concentrava sia la migliore produzione olearia della Liguria, sia il più fiorente commercio di esportazione. Presto l’agitazione si estese a Oneglia, a Diano, ad Albenga e in altri comuni, tanto che già ai primi d’agosto il governo temeva «una generale insurrezione di quella Riviera». La rivolta ebbe naturalmente aspetti violenti (vennero cacciati gli esattori e i gendarmi, si diede l’assalto al «burò delle gabelle»), ma si distinse nettamente dalle insorgenze sanfediste e antifrancesi scoppiate in tante parti d’Italia durante l’età giacobina e napoleonica. Qui i protagonisti non furono gli aristocratici e i preti reazionari, né la «plebaglia» o i «paesani» ignoranti, bensì i proprie-tari, i mercanti, gli spedizionieri, sostenuti – come recita un documento dell’epoca – da tutti coloro che «ritraevano dal negozio dell’olio la loro sussistenza». Questa leadership borghese conferì alla rivolta, oltre a una certa coerenza e a una discreta organizzazione, una condotta sostanzialmente legalista, che faceva appello all’osservanza rigorosa della costituzione ligure e riconosceva nella Francia non un nemico ma un alleato, tanto è vero che si cercò di spedire una deputazione a Parigi per conferire con Napoleone, da poco divenuto Imperatore, e perorare presso di lui la causa dei Portorini. I moti del 1804 rappresentano dunque un episodio significativo per molti aspetti. In primo luogo ci ricordano che nella Riviera di Ponente, ove si eccettui il caso già ricordato degli Onegliesi fedeli ai Savoia, non ci furono episodi “controrivoluzionari”: qui le popolazioni avevano accettato il nuovo regime, in base al quale – almeno in teoria – tutti i cittadini erano uguali davanti alla legge e non c’era più distinzione tra i privilegi di Genova (la «Dominante») e la sudditanza del resto dello Stato (il «Dominio»). La rivolta, infatti, era scoppiata nel momento in cui questa uguaglianza si era definitivamen-te rivelata fittizia. Il governo della Repubblica Ligure, che si presentava come il legittimo rappresentante degli interessi di tutta la regione, in realtà li calpestava: il potere dell’antica Dominante – non più temperato da quei patti e da quelle «convenzioni» che in passato avevano garantito alle comunità della Riviera una notevole autonomia e una scarsa pressione fiscale – era divenuto ancor meno tollerabile. In secondo luogo risulta chiaro che i capi dei rivoltosi, con quel loro appellarsi a Napoleone, si erano persuasi che da Genova non c’era più da attendersi nulla di buono, che tanto valeva rivolgersi alla Francia, chiedere ad essa il rispetto di quella legalità che il governo genovese non garantiva più, o addirittura (la documentazione dell’epoca rivela che questo auspicio era ben presente) entrare a far parte dell’Impero francese: perché era meglio dipendere da Parigi direttamente, che non tramite un intermediario meschino e malfido, da cui venivano angherie e balzelli, ma nessuno dei vantaggi – anzitutto di protezione economica e di apertura di mercati – che la Grande Nation pareva in grado di assicurare.Per il momento era un calcolo sbagliato: la Francia non rispose all’appello, anzi mise le proprie truppe a disposizione del governo genovese per soffocare la rivolta. Ma quell’episodio indicò chiaramente che una parte della popolazione ligure non riconosceva più il legame politico con Genova, e che era pronta ad accettare senza rimpianti l’incorporazione nell’Impero napoleonico. D’altronde, a che cosa si era ridotta la Repubblica Ligure sullo scorcio del 1804? A un vero e proprio Stato fantoccio, i cui unici compiti consistevano nel pagare tributi militari, mantenere truppe straniere, e peggio ancora procurare navi e marinai alla marina militare della Francia. Ma la marineria ligure, e in particolare quella ponentina, era abituata da sempre a basare il successo dei propri traffici sulla neutralità, sull’inesistenza di ogni apparato militare, sull’impiego delle bandiere-ombra: agli occhi dei capitani e dei patroni di Sanremo o di Porto Maurizio nulla appariva tanto insensato quanto una politica di potenza navale, per di più diretta contro un ottimo partner commerciale come l’Inghilterra. Quella politica non la voleva neppure Genova, in parte per gli stessi motivi, in parte perché costruire vascelli da guerra o predisporre batterie costiere comportava enormi spese. Ma Genova doveva in qualche modo accontentare il potente alleato-padrone, e la via più semplice e più economica era quella di accoglierne le richieste circa il reclutamento dei marinai per la flotta da guerra. Dapprima ci si limitò a far propaganda per un arruolamento spontaneo, che fallì completamente. La Francia, allora, puntò i piedi e pretese la leva forzata prima di quattromila, poi di seimila marinai di età compresa tra i 20 e i 45 anni, con almeno quattro anni di navigazione, i quali sarebbero stati al servizio e al soldo della marina napoleonica sino alla fine della guerra. Un vergognoso mercato di uomini che –nonostante le altrettanto vergognose esortazioni di alcuni vescovi come quello di Albenga, i quali cercavano di persuadere i loro fedeli a chinare il capo – suscitò la generale reazione delle popolazioni del Ponente: scoppiarono tumulti, bande di giovani si diedero alla macchia su per le montagne, molti uomini (e molte imbarcazioni) scapparono all’estero, andando soprattutto a servire sui vascelli inglesi o diventando corsari di Sua Maestà britannica.Questo insuccesso, unito al generale sfacelo della Repubblica Ligure, fu determi-nante nel persuadere Napoleone che ormai era inutile mantenerne la fittizia indipendenza. Man mano che si approfondiva lo scontro con l’Inghilterra, diveniva sempre più indispensabile il contributo della Liguria al controllo della costa tirrenica e all’incremento della marina da guerra nel Mediterraneo. Se il governo di Genova si sottraeva ai propri doveri nei confronti della Francia, bisognava spazzarlo via e sostituire ad esso l’autorità diretta dell’Impero. In precedenza l’interessamento dell’amministrazione francese aveva riguardato più che altro il Ponente ligure: la Francia occupava da anni il Piemonte e nel 1802 se l’era annesso, era quindi ovvio che ne ereditasse un tradizionale obiettivo strategico quale la conquista della Riviera da Savona a Ventimiglia, che i Savoia consideravano da sempre il naturale sbocco marittimo della regione subalpina. Nella primavera del 1803 i consoli e viceconsoli francesi di Savona, Porto Maurizio e Sanremo erano stati sollecitati dal loro governo a fornire notizie dettagliate su quei luoghi, e i loro rapporti avevano sottolineato l’opportunità di impadronirsi di un territorio che si segnalava per la sua ricchezza agricola e commerciale: sul finire del 1803 il viceconsole di Porto Maurizio Vianelli aveva indirizzato a Parigi un rapporto nel quale magnificava le potenzialità economiche di quella parte della Riviera, ne lodava la numerosa popolazione marittima («esistono pochi marinai più attivi, vigili e frugali di quelli della Riviera di Ponente») e concludeva che il paese, una volta dotato di quelle infrastrutture che l’amministrazione francese non avrebbe mancato di realizzarvi, sarebbe giunto «a un alto grado di prosperità». Due anni dopo, nel maggio 1805, Napoleone decise che tanto valeva incorporare tutto il Genovesato: fece votare da un Senato acquiescente l’annessione e fece organizzare un plebiscito fasullo (come sono, di solito, i plebisciti), che naturalmente ebbe pieno successo. Nel Ponente in particolare, dicono i resoconti dell’epoca, «tutte le autorità costituite, i vescovi, i parroci, gli uomini più influenti e il popolo stesso» si affrettarono a votare a favore. Se Genova accettava l’annessione obtorto collo, i “ponentini”, lo abbiamo visto, si erano messi già da tempo su quella strada, e quindi non potevano che approvare ciò che era nei loro desideri, o quantomeno che era considerato il male minore. Ci furono addirittura manifestazioni di giubilo a Savona (dove il popolo si affrettò a sventolare sugli edifici il tricolore bianco-rosso-blu, dopo avere in fretta ammainato il vessillo genovese) e in altri centri del Ponente. Dopo anni di crisi e di tensioni, l’ingresso nell’Impero – cioè in una vasta e organizzata compagine statale allora al culmine della potenza politico-militare – pareva destinato a garantire a quelle popolazioni ordine, stabilità, buona amministrazione, allargamento dei mercati, e soprattutto un potere imparziale, non “egoistico” quale spesso era stato giudicato quello di Genova.Così la Liguria diventò francese, e come la madrepatria fu suddivisa in dipartimenti, denominati Gênes, Apennins, Montenotte. Quest’ultimo, con capoluogo Savona, comprendeva la Riviera di Ponente da Arenzano a Santo Stefano, mentre il territorio dal torrente Argentina a Ventimiglia venne unito al preesistente dipartimento delle Alpes-Maritimes, che aveva come capoluogo Nizza. A “francesizzare” la regione – prova evidente che Napoleone le attribuiva grande importanza – furono spediti personaggi di rango: dapprima nientemeno che il ministro dell’Interno, Jean-Baptiste de Champagny, poi un funzionario d’altissimo livello come l’Architrésorier de l’Empire Charles-François Lebrun. La Francia d’altronde, nell’organizzazione del nuovo territorio, aveva una strategia e non faceva le cose a caso. Il dipartimento di Montenotte (il cui nome evocava nell’Imperatore il felice ricordo della sua prima vittoria in Italia), oltre alle terre ex genovesi della Riviera, cioè i circondari di Savona e di Porto Maurizio, comprendeva quelli piemontesi di Ceva e di Acqui. In tal modo all’area costiera veniva opportunamente unito un ampio retroterra; e veniva così conferita una compattezza amministrativa a territori tra i quali, da secoli, si erano instaurati fitti rapporti economici, a dispetto dell’azione dei rispettivi governi – la Repubblica di Genova e il regno di Sardegna – che avevano piuttosto mirato a scoraggiarli: Genova cercando di monopolizzare i rapporti col Piemonte e il Monferrato a danno soprattutto di Savona, Torino puntando a deviare i traffici dagli scali ponentini per indirizzarli sul porto di Nizza-Villafranca. Le nuove circoscrizioni territoriali di Montenotte e delle Alpes-Maritimes, d’al-tronde, erano destinate a un successo duraturo tra gli abitanti di quei luoghi. Piacquero moltissimo ai Savonesi, che da sempre si consideravano oppressi da Genova e quindi gioivano sia del declassamento di quest’ultima, sia dell’elevazione della propria città a capoluogo di dipartimento. Auspice la presenza a Savona quale prefetto, tra il 1806 e il 1812, di Gilbert Chabrol de Volvic, cioè di uno dei migliori amministratori prodotti dalla Francia napoleonica (e che non a caso assumerà poi la prefettura di Parigi), qui prenderà corpo addirittura una “leggenda aurea” relativa a questo periodo, leggenda che dura a tutt’oggi. Ma anche a Porto Maurizio e a Sanremo, elevati entrambi alla dignità di capoluoghi di circondario, gli anni francesi sarebbero stati a lungo ricordati con favore. Più in generale, in tutto quel territorio si sarebbe radicata un’idea tornata d’attualità in anni vicini a noi, vale a dire l’opportunità di dar vita a una «regione delle Alpi meridionali» comprendente appunto le province di Nizza, Imperia e Savona, nonché il Cuneese e parte del Monferrato: una regione “transfrontaliera” e “transregionale”, ma assai coerente nei suoi rapporti economici e umani, rapporti che affondano le loro radici in quel periodo lontano, e che hanno tratto alimento da un perdurante disinteresse del capoluogo regionale per le terre del Ponente ligure. Si può aggiungere che proprio nell’età napoleonica venne alla luce una netta divaricazione tra Genova da una parte – i cui interessi guardavano in primo luogo al retroterra lombardo e al grande emporio di Milano, e che quindi anche per questo motivo subiva con grande rincrescimento l’annessione alla Francia e quella successiva al regno di Sardegna, con la conseguente separazione da quel retroterra – e dall’altra la Riviera di Ponente che, come s’è detto, accettava senza rimpianti sia le decisioni di Napoleone, sia quelle successive del Congresso di Vienna che la legarono in un unico Stato col il Regno Sardo.Ma queste erano cose del futuro. Allora bisognava fare i conti con la realtà contraddittoria di un Impero che trionfava in tutta Europa (il 1805, anno dell’annessione, vide le strepitose vittorie di Ulm e Austerlitz), ma pagava quei trionfi a caro prezzo: i morti in battaglia e il reclutamento ossessivo di sempre nuovi giovani, le ricchezze bruciate nella guerra, la tassazione crescente, i commerci ostacolati, le sconfitte sui mari (del 1805 è anche la battaglia di Trafalgar che sancì la supremazia marittima dell’Inghilterra). Per le popolazioni del Ponente ligure le contraddizioni divennero presto evidenti nell’accavallarsi di aspetti positivi e negativi. L’importanza strategica dei nuovi territori indusse Parigi a una scelta molto oculata degli amministratori. Si è già detto della straordinaria figura del prefetto Chabrol, bisogna aggiungere che anche il suo predecessore Nardon e il suo successore Brignole Sale furono personalità di rilievo. Ma fu tutto il personale allora selezionato che risultò di alto livello: per esempio il sottoprefetto di Porto Maurizio, Giovanni Monticelli, e quello di Savona, il finalese Giorgio Gallesio, uno dei più grandi agronomi del suo tempo; il segretario di prefettura, il portorino Pantaleone Gandolfi; i sindaci (o maires, come allora si chiamavano) di Savona, Luigi Multedo, di Porto Maurizio, Luigi Manuel, di Diano, Nicolò Arduino. E quasi tutti i personaggi di rilievo della zona – fossero intellettuali o operatori economici – vennero allora coinvolti in qualche modo nella gestione della cosa pubblica o nello studio dell’economia locale. Nel contempo fiorirono i progetti più ottimistici. Fin dal 1805 il prefetto Nardon si diceva convinto che nel dipartimento di Montenotte c’erano «i germi di una grande prosperità», purché si aprissero buone comunicazioni tra la costa e il Piemonte, e pronosticava: «Faremo compiere grandi progressi a questa popolazione industriosa, dedita al commercio, che ama molto il denaro e corre qualunque rischio e pericolo sui mali per procurarselo».Il suo successore Chabrol abbracciò con decisione quel programma, da un lato cercando di conciliare al meglio le strategie complessive dell’Impero con gli interessi della Riviera, dall’altro promuovendone quella conoscenza approfondita delle condizioni.
Casalino Pierluigi