La disistima verso gli studi umanistici nella nostra società si accompagna alla crescita di una mentalità ascientifica in virtù della quale proliferano terrapiattisti, no vax e santoni d’ogni tipo.Italo Calvino in un bel volume intitolato Perché leggere i classici argomentava le sue riflessioni per rispondere a quella domanda. In questa sede rincariamo la dose chiedendoci: Che cosa significa fare ricerca in campo umanistico? Perché studiare Dante a 700 anni dalla sua morte? Studiare dico, e non piuttosto celebrare, come si fa con le cose morte. Per rispondere a questa domanda ci concediamo il lusso di ragionare del trattato di diritto pubblico che Dante scrisse in vista della speranza di pacificazione dell’Italia, afflitta dal mos partium et fationum, allora come oggi: la Monarchia.La Monarchia è l’opera nella quale Dante ha riflettuto con realismo politico circa la sovranità, il popolo e la pace muovendo dall’esperienza concreta dell’Impero romano e della sua esemplarità: nella Roma imperiale la sovranità era ceduta dal popolo all’imperatore in virtù della così detta lex regia (Lex de imperio Vespasiani). Per Dante si trattava di individuare un’unità di comando utile a comporre gli interessi delle parti e garante della pace. Il monarca Di Dante, o principio direttivo, avrebbe avuto la caratteristica di non essere soggetto a cupidigia d’avere e, possedendo già tutto, d’essere potentissimo e perciò capace di realizzare la giustizia.La chiara distinzione tra la sfera spirituale e quella temporale anticipava tempi e dottrine politiche che hanno trionfato in epoche successive. Per Dante il papa doveva esercitare la sua auctoritas nelle questioni spirituali, l’imperatore la sua potestas nelle questioni civili. Le due autorità, civile e spirituale, dovevano inoltre essere limitate l’una dall’altra. Nel paradigma medievale inoltre l’imperatore liberamente si sottomette alla legge pur essendo libero dalla legge.Dal Convivio alla Monarchia alla Commedia Dante ha riflettuto sul giusto giudizio, sul bene comune e sul destino della comunità civile sulle orme di Aristotele e Cicerone dei quali aveva studiato la filosofia politica con Brunetto Latini, suo maestro. L’Etica a Nicomaco e il primo libro del De officiis furono le fondamenta sulle quali egli formò il suo pensiero politico. (In proposito si legga Claudia Di Fonzo, Dante e la tradizione giuridica, Roma, Carocci, 2016).Cosa allora ci allontana e ci avvicina a un classico e cosa ancora può esserci da sapere su un poeta del quale si parla da 700 anni? In che modo giunge a noi un testo e che cosa può cambiare in quel testo nel corso del tempo? Qualcosa può cambiare, soprattutto se di quell’autore non custodiamo alcun autografo. Della Commedia, non possedendo l’autografo, abbiamo una ricostruzione frutto del lavorio di molti studiosi. Neppure della Monarchia possediamo l’autografo. Anzi per quanto concerne questo trattato, la questione è ancora più complessa poiché fu censurato e bruciato in piazza e il suo titolo fu espunto da tutti i manoscritti.A volte tornare a studiare un manoscritto cambia le carte in tavola: è il caso del codice Additional 6891 della British Library di Londra. La disamina attenta di quel manoscritto ha permesso di risolvere una crux del testo del trattato e di retrodatarlo in modo da poterne poi cogliere il significato complessivo con maggiore accuratezza. Nelle mani di Diego Quaglioni, studioso esperto, quel manoscritto si è trasformato in un testimone autorevole. L’Additional 6891 è un manoscritto composito che contiene la Monarchia di Dante (carte 1r-17v) e la Bolla Unigenitus del 18 agosto 1349, con cui Clemente VI ha indetto il Giubileo del 1350 (carte 18r-20v). Due sono le scritture impiegate: il testo del trattato dantesco è in gotica italiana, la bolla in cancelleresca. Il copista del codice Additional ha vergato con cura il suo testo, introducendo due serie di rubricature: una prima serie per indicare la partizione in tre libri e una seconda per indicare la divisione in capitoli. Egli è andato a capo in modo da formare un motivo a forma di scala all’inizio di ogni paragrafo affinché la partizione del testo fosse immediatamente percepibile. Il giurista Francesco Amadi che ha posseduto quel codice, ha avuto cura di apporre la nota di possesso all’inizio e alla fine del manufatto (alle carte 1r e 20v). Amadi è uno di quegli intellettuali che testimoniano quanto sia feconda, non solo sul piano materiale, l’intersezione tra diritto e letteratura. Giurista di pregio scrisse un dialogo sulla lingua pubblicato a Venezia nel 1821: Della lingua italiana dialogo. Scrisse anche un’opera che affronta il tema della nobiltà della città, nel caso precipuo Bologna, ricompresa nel suo Specchio della Nobiltà d’Europa. L’opera fu pubblicata a Cremona nel 1888 presso Christoforo Draconi. In lui vivissima fu la coscienza della funzione retorica e politica della poesia e «quanta forza habbia a mover gli affetti humani». Alla British Library di Londra si scopre con sorpresa che si tratta di un «palinsesto».Che cosa è un palinsesto? Si chiama palinsesto un manoscritto le cui carte pergamenacee sono state erase (cancellate) per poterci scrivere sopra nuovamente. Chi ha  esaminato il codice con l’ausilio della lampada di Wood mi resi conto che a partire dalla carta 21 il codice recava le tracce di una scrittura precedente che era stata abrasa.In poche ore mi resi conto che la scrittura sottostante non era uniforme e che sotto il testo della Monarchia (da carta 1r a carta 11v) s’intravedevano riscritti notarili e documenti di cancelleria. Dalla carta 12v alla carta 20v, la scrittura prior appariva essere verticale rispetto al ductus. Sulla base della scriptura prior si capiva che il codice era composto da due fascicoli: un sesterno e un quaterno. La legatura del codice confermava l’osservazione: il primo fascicolo risultava composto da 6 fogli per un totale di dodici carte (da carta 1r a carta 12), il secondo fascicolo da 4 fogli per un totale di 8 carte (dalla carta 13 r alla 20). I due fascicoli erano tenuti insieme da una carta di guardia. Palinsesto o meno, l’esame di questo codice ha cambiato le carte in tavola per quel che riguarda la data di composizione della Monarchia poiché l’editore moderno (Diego Quaglioni) ha potuto constatare che l’inciso «sicut in Comediae Paradiso iam dixi» che compariva in Monarchia I, xii, 6,  sulla base del quale molti studiosi avevano datato il trattato posponendolo alla data di scrittura del quinto canto del Paradiso, non compariva nel manoscritto di Londra. In quel punto il testo del manoscritto Additional 891 era corrotto e permetteva di ipotizzare una corruttela nell’antigrafo. Pier Giorgio Ricci, l’editore della Monarchia che aveva ascritto il trattato al 1317, si era basato tanto sull’infittirsi delle diatribe della pubblicistica sulla giurisdizione imperiale all’indomani dell’elezione di Giovanni XXII (7 agosto 1316) quanto sulla presunta auto-citazione del Paradiso («sicut in Paradiso Comediae iam dixi» di Mn I, xii, 6). Diego Quaglioni, portando alla luce la corruttela del testo della Monarchia in quel punto, ha riaperto la questione ascrivendo la Monarchia al 1312 come pure aveva fatto Boccaccio nel suo Trattatello in lode di Dante.Cos’altro può significare tutto questo per il lettore moderno se non che valga ancora la pena studiare i nostri classici? Non solo l’oggetto di studio non è materialmente esaurito. Ma lo spirito dello studioso, la sua attenzione e la sua abitudine alla riflessione razionale e alla osservazione dei fatti sarebbero un valido vaccino contro il virus della mentalità ascientifica e di quell’opinionismo basato su una communis opinio non fondata sulla razionalità ma sui sensi. Contro questa degenerazione del concetto aristotelico già tuonava Dante nel quarto trattato del Convivio. E oggi tuonerebbe contro lo sciagurato politically correct, segno di profonda ignoranCasalino Pierluigi 

La disistima verso gli studi umanistici nella nostra società si accompagna alla crescita di una mentalità ascientifica in virtù della quale proliferano terrapiattisti, no vax e santoni d’ogni tipo.Italo Calvino in un bel volume intitolato Perché leggere i classici argomentava le sue riflessioni per rispondere a quella domanda. In questa sede rincariamo la dose chiedendoci: Che cosa significa fare ricerca in campo umanistico? Perché studiare Dante a 700 anni dalla sua morte? Studiare dico, e non piuttosto celebrare, come si fa con le cose morte. Per rispondere a questa domanda ci concediamo il lusso di ragionare del trattato di diritto pubblico che Dante scrisse in vista della speranza di pacificazione dell’Italia, afflitta dal mos partium et fationum, allora come oggi: la Monarchia.La Monarchia è l’opera nella quale Dante ha riflettuto con realismo politico circa la sovranità, il popolo e la pace muovendo dall’esperienza concreta dell’Impero romano e della sua esemplarità: nella Roma imperiale la sovranità era ceduta dal popolo all’imperatore in virtù della così detta lex regia (Lex de imperio Vespasiani). Per Dante si trattava di individuare un’unità di comando utile a comporre gli interessi delle parti e garante della pace. Il monarca Di Dante, o principio direttivo, avrebbe avuto la caratteristica di non essere soggetto a cupidigia d’avere e, possedendo già tutto, d’essere potentissimo e perciò capace di realizzare la giustizia.La chiara distinzione tra la sfera spirituale e quella temporale anticipava tempi e dottrine politiche che hanno trionfato in epoche successive. Per Dante il papa doveva esercitare la sua auctoritas nelle questioni spirituali, l’imperatore la sua potestas nelle questioni civili. Le due autorità, civile e spirituale, dovevano inoltre essere limitate l’una dall’altra. Nel paradigma medievale inoltre l’imperatore liberamente si sottomette alla legge pur essendo libero dalla legge.Dal Convivio alla Monarchia alla Commedia Dante ha riflettuto sul giusto giudizio, sul bene comune e sul destino della comunità civile sulle orme di Aristotele e Cicerone dei quali aveva studiato la filosofia politica con Brunetto Latini, suo maestro. L’Etica a Nicomaco e il primo libro del De officiis furono le fondamenta sulle quali egli formò il suo pensiero politico. (In proposito si legga Claudia Di Fonzo, Dante e la tradizione giuridica, Roma, Carocci, 2016).Cosa allora ci allontana e ci avvicina a un classico e cosa ancora può esserci da sapere su un poeta del quale si parla da 700 anni? In che modo giunge a noi un testo e che cosa può cambiare in quel testo nel corso del tempo? Qualcosa può cambiare, soprattutto se di quell’autore non custodiamo alcun autografo. Della Commedia, non possedendo l’autografo, abbiamo una ricostruzione frutto del lavorio di molti studiosi. Neppure della Monarchia possediamo l’autografo. Anzi per quanto concerne questo trattato, la questione è ancora più complessa poiché fu censurato e bruciato in piazza e il suo titolo fu espunto da tutti i manoscritti.A volte tornare a studiare un manoscritto cambia le carte in tavola: è il caso del codice Additional 6891 della British Library di Londra. La disamina attenta di quel manoscritto ha permesso di risolvere una crux del testo del trattato e di retrodatarlo in modo da poterne poi cogliere il significato complessivo con maggiore accuratezza. Nelle mani di Diego Quaglioni, studioso esperto, quel manoscritto si è trasformato in un testimone autorevole. L’Additional 6891 è un manoscritto composito che contiene la Monarchia di Dante (carte 1r-17v) e la Bolla Unigenitus del 18 agosto 1349, con cui Clemente VI ha indetto il Giubileo del 1350 (carte 18r-20v). Due sono le scritture impiegate: il testo del trattato dantesco è in gotica italiana, la bolla in cancelleresca. Il copista del codice Additional ha vergato con cura il suo testo, introducendo due serie di rubricature: una prima serie per indicare la partizione in tre libri e una seconda per indicare la divisione in capitoli. Egli è andato a capo in modo da formare un motivo a forma di scala all’inizio di ogni paragrafo affinché la partizione del testo fosse immediatamente percepibile.

Il giurista Francesco Amadi che ha posseduto quel codice, ha avuto cura di apporre la nota di possesso all’inizio e alla fine del manufatto (alle carte 1r e 20v). Amadi è uno di quegli intellettuali che testimoniano quanto sia feconda, non solo sul piano materiale, l’intersezione tra diritto e letteratura. Giurista di pregio scrisse un dialogo sulla lingua pubblicato a Venezia nel 1821: Della lingua italiana dialogo. Scrisse anche un’opera che affronta il tema della nobiltà della città, nel caso precipuo Bologna, ricompresa nel suo Specchio della Nobiltà d’Europa. L’opera fu pubblicata a Cremona nel 1888 presso Christoforo Draconi. In lui vivissima fu la coscienza della funzione retorica e politica della poesia e «quanta forza habbia a mover gli affetti humani».

Alla British Library di Londra si scopre con sorpresa che si tratta di un «palinsesto».Che cosa è un palinsesto? Si chiama palinsesto un manoscritto le cui carte pergamenacee sono state erase (cancellate) per poterci scrivere sopra nuovamente. Chi ha

esaminato il codice con l’ausilio della lampada di Wood mi resi conto che a partire dalla carta 21 il codice recava le tracce di una scrittura precedente che era stata abrasa.In poche ore mi resi conto che la scrittura sottostante non era uniforme e che sotto il testo della Monarchia (da carta 1r a carta 11v) s’intravedevano riscritti notarili e documenti di cancelleria. Dalla carta 12v alla carta 20v, la scrittura prior appariva essere verticale rispetto al ductus. Sulla base della scriptura prior si capiva che il codice era composto da due fascicoli: un sesterno e un quaterno. La legatura del codice confermava l’osservazione: il primo fascicolo risultava composto da 6 fogli per un totale di dodici carte (da carta 1r a carta 12), il secondo fascicolo da 4 fogli per un totale di 8 carte (dalla carta 13 r alla 20). I due fascicoli erano tenuti insieme da una carta di guardia.

Palinsesto o meno, l’esame di questo codice ha cambiato le carte in tavola per quel che riguarda la data di composizione della Monarchia poiché l’editore moderno (Diego Quaglioni) ha potuto constatare che l’inciso «sicut in Comediae Paradiso iam dixi» che compariva in Monarchia I, xii, 6,  sulla base del quale molti studiosi avevano datato il trattato posponendolo alla data di scrittura del quinto canto del Paradiso, non compariva nel manoscritto di Londra. In quel punto il testo del manoscritto Additional 891 era corrotto e permetteva di ipotizzare una corruttela nell’antigrafo. Pier Giorgio Ricci, l’editore della Monarchia che aveva ascritto il trattato al 1317, si era basato tanto sull’infittirsi delle diatribe della pubblicistica sulla giurisdizione imperiale all’indomani dell’elezione di Giovanni XXII (7 agosto 1316) quanto sulla presunta auto-citazione del Paradiso («sicut in Paradiso Comediae iam dixi» di Mn I, xii, 6). Diego Quaglioni, portando alla luce la corruttela del testo della Monarchia in quel punto, ha riaperto la questione ascrivendo la Monarchia al 1312 come pure aveva fatto Boccaccio nel suo Trattatello in lode di Dante.Cos’altro può significare tutto questo per il lettore moderno se non che valga ancora la pena studiare i nostri classici? Non solo l’oggetto di studio non è materialmente esaurito. Ma lo spirito dello studioso, la sua attenzione e la sua abitudine alla riflessione razionale e alla osservazione dei fatti sarebbero un valido vaccino contro il virus della mentalità ascientifica e di quell’opinionismo basato su una communis opinio non fondata sulla razionalità ma sui sensi. Contro questa degenerazione del concetto aristotelico già tuonava Dante nel quarto trattato del Convivio. E oggi tuonerebbe contro lo sciagurato politically correct, segno di profonda ignoranza.

Casalino Pierluigi