La poesia di Corrado Govoni fa di lui un prodotto assolutamente naturale della poesia italiana, forse un insieme particolarmente fortunato di quanto la poesia del Bel Paese ha significato nella sua ormai plurisecolare vicenda. Non paia fuori luogo, quindi, ricordare l’intreccio singolare di versi e di immagini che Govoni propose nel corso della sua non facile esistenza proprio in occasione di quelle celebrazioni dantesche che si stanno svolgendo quest’anno. La cifra delle intuizioni govoniane, così pervase da struggenti e dirette contemplazioni della natura secondo una teoria tipicamente dinamica ed evocativa al tempo stesso. L’ultimo Govoni, in particolare, colpito negli affetti e segnato dalla delusione nei confronti del genere umano, sembra recuperare di molti dei temi delle sue creazioni originarie, pur non disperdendo quelle ansie e quelle speranze che caratterizzarono il suo periodo futuristico. Centrale resta comunque in questo figlio della campagna ferrarese quella dimensione georgica, se non bucolica che un altro grande figlio di questo mondo agricolo (da Govoni non troppo lontano) che è attraversato dal fiume Pò, il mantovano Virgilio: autore, quest’ultimo, che in qualche modo viene rivisitato, anche inconsapevolmente, in numerose delle visioni del ferrarese. E d’altra parte anche Virgilio è mosso dalla palingenetica ansia di un domani migliore, anche se non identificato in un avvenirismo futuristico modernistico. Govoni rifulge di ingenuità e di stupore, interprete di una vera magia dell’arte descrittiva. Un’arte che ancora merita di lettura meditata. Ed è anche per questa ragione che, a cinquant’anni dalla sua morte, si va sempre più delineando il senso autentico del messaggio di Corrado Govoni. Quello della poesia per la vita. Casalino Pierluigi, 22.06.2015

La poesia di Corrado Govoni fa di lui un prodotto assolutamente naturale della poesia italiana, forse un insieme particolarmente fortunato di quanto la poesia del Bel Paese ha significato nella sua ormai plurisecolare vicenda. Non paia fuori luogo, quindi, ricordare l’intreccio singolare di versi e di immagini che Govoni propose nel corso della sua non facile esistenza proprio in occasione di quelle celebrazioni dantesche che si stanno svolgendo quest’anno. La cifra delle intuizioni govoniane, così pervase da struggenti e dirette contemplazioni della natura secondo una teoria tipicamente dinamica ed evocativa al tempo stesso. L’ultimo Govoni, in particolare, colpito negli affetti e segnato dalla delusione nei confronti del genere umano, sembra recuperare di molti dei temi delle sue creazioni originarie, pur non disperdendo quelle ansie e quelle speranze che caratterizzarono il suo periodo futuristico. Centrale resta comunque in questo figlio della campagna ferrarese quella dimensione georgica, se non bucolica che un altro grande figlio di questo mondo agricolo (da Govoni non troppo lontano) che è attraversato dal fiume Pò, il mantovano Virgilio: autore, quest’ultimo, che in qualche modo viene rivisitato, anche inconsapevolmente, in numerose delle visioni del ferrarese. E d’altra parte anche Virgilio è mosso dalla palingenetica ansia di un domani migliore, anche se non identificato in un avvenirismo futuristico modernistico. Govoni rifulge di ingenuità e di stupore, interprete di una vera magia dell’arte descrittiva. Un’arte che ancora merita di lettura meditata. Ed è anche per questa ragione che, a cinquant’anni dalla sua morte, si va sempre più delineando il senso autentico del messaggio di Corrado Govoni. Quello della poesia per la vita. Casalino Pierluigi, 22.06.2015

A differenza di Jules Verne che aveva individuato nell’America la base di lancio dell’avventura futurista, Marinetti non fu mai attratto da quella civiltà di metropoli e di conquiste. Solo artisti come Depero e Leone Castelli colsero il messaggio fecondo di quella terra dove si stava progressivamente trasferendo il testimone della creatività. Fu comunque la stessa America a scoprire tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e gli anni Cinquanta l’idea futurista, anche a causa dell’ostracismo decretato dalla critica ufficiale italiana all’arte futurista, colpevole agli occhi postbellici di connivenze con il passato regime fascista. Le opere del futurismo italiano finirono così oltre Atlantico: nelle case e in particolare nei musei a stelle e strisce si andarono a collocare i capolavori di Boccioni, Carrà, Balla e Severini in esodo dal Bel Paese, vittima dei ricorrenti e grotteschi conformismi e trasformismi della sua storia. Il Solomon R. Guggenheim Museum, invece, per una curiosa coincidenza, prendeva corpo a New York proprio in quel 1944 in cui si stava esaurendo la parabola del Futurismo italiano con la morte del suo fondatore Marinetti. In questi giorni quella fortunata istituzione rende omaggio all’avanguardia italiana, prendendo in considerazione l’intero periodo del movimento (1909-1944) e tutto il suo raggio d’azione dalle arti all’architettura, alla letteratura, al teatro, alla moda, al design, alla grafica, alla cucina. “Italian Futurism (1909.1944): Reconstructing the Universe” è il titolo appunto della manifestazione del 2014 avuto  al Guggenheim e che ha il merito di proporre una rassegna articolata ed inedita su quello che fu il fenomeno dell’invenzione della modernità in Italia, fino agli esiti estremi dell’aeropittura di Tullio Crali, che ancora ai giorni nostri rivelano una vitalità impressionante. La curatrice dell’evento, Vivian Green, sottolineando l’importanza della mostra, ha definito l”Italia una nazione di grandi innovatori, rifacendosi, nel complesso, al patrimonio di idee e di scoperte del genio di questo Paese: il Futurismo, quindi, rappresenta una pietra miliare nel percorso affascinante dell’italianità nel mondo.   27.02.2015

A differenza di Jules Verne che aveva individuato nell’America la base di lancio dell’avventura futurista, Marinetti non fu mai attratto da quella civiltà di metropoli e di conquiste. Solo artisti come Depero e Leone Castelli colsero il messaggio fecondo di quella terra dove si stava progressivamente trasferendo il testimone della creatività. Fu comunque la stessa America a scoprire tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e gli anni Cinquanta l’idea futurista, anche a causa dell’ostracismo decretato dalla critica ufficiale italiana all’arte futurista, colpevole agli occhi postbellici di connivenze con il passato regime fascista. Le opere del futurismo italiano finirono così oltre Atlantico: nelle case e in particolare nei musei a stelle e strisce si andarono a collocare i capolavori di Boccioni, Carrà, Balla e Severini in esodo dal Bel Paese, vittima dei ricorrenti e grotteschi conformismi e trasformismi della sua storia. Il Solomon R. Guggenheim Museum, invece, per una curiosa coincidenza, prendeva corpo a New York proprio in quel 1944 in cui si stava esaurendo la parabola del Futurismo italiano con la morte del suo fondatore Marinetti. In questi giorni quella fortunata istituzione rende omaggio all’avanguardia italiana, prendendo in considerazione l’intero periodo del movimento (1909-1944) e tutto il suo raggio d’azione dalle arti all’architettura, alla letteratura, al teatro, alla moda, al design, alla grafica, alla cucina. “Italian Futurism (1909.1944): Reconstructing the Universe” è il titolo appunto della manifestazione del 2014 avuto al Guggenheim e che ha il merito di proporre una rassegna articolata ed inedita su quello che fu il fenomeno dell’invenzione della modernità in Italia, fino agli esiti estremi dell’aeropittura di Tullio Crali, che ancora ai giorni nostri rivelano una vitalità impressionante. La curatrice dell’evento, Vivian Green, sottolineando l’importanza della mostra, ha definito l”Italia una nazione di grandi innovatori, rifacendosi, nel complesso, al patrimonio di idee e di scoperte del genio di questo Paese: il Futurismo, quindi, rappresenta una pietra miliare nel percorso affascinante dell’italianità nel mondo. 27.02.2015

EMMA UGHETTI, ARTISTA TOTALE. La Ughetti è artista dalla personalità complessa, spumeggiante, interessantissima per le significative interpretazioni della realtà, da quelle della moda a quelle più specificamente articolate, quali le occasioni della vita e le circostanze della quotidianità ambientale, dei contesti ambientali… Emma Ughetti evoca e si accosta al movimento transumanista italiano ed europeo per la cifra dei cromatismi proposti e delle scenografie intrise di ” immaginazione dell’immagine”, in una sorta di teoria creativa multimediale che merita la massima attenzione. Il successo che Emma riporta in Francia testimonia un momento di straordinaria capacità di lavorare con il mezzo fotografico, un mezzo che nelle sue mani costituisce l’inizio e la fine delle dimensioni del reale, colte in un originalissimo trend tecnico, segno di una altrettanto versatilità della ricognizione fotografica. La Ughetti è in grado di tradurre nelle diverse sfumature della rappresentazione un ben più ricco contributo di idee e di pensieri, sfumature di sensazioni e di emozioni che emergono dall’universo di oggetti che lei visita e rivisita in una particolare ricostruzione o rivisitazione del mondo.  Pierluigi Casalino.   http://le-lune-di-marte2.webnode.com/news/emma-ughetti-la-sorella-di-vula/
LA TEATRALITA” DI MARINETTI. Il compito di rendere accessibile e di chiara lettura la produzione  teatrale di Filippo Tommaso Marinetti al pubblico di oggi non è mai facile come non facile è, del resto, la personalità del suo autore. Esistono tuttavia edizioni moderne dell”opera teatrale di Marinetti in grado di comunicarne il messaggio nel modo più adeguato e all”altezza alla cifra creativa del fondatore del Futurismo, oltre che in sintonia con i tempi. Tra queste quella assai felice, curata una decina di anni fa da Mondadori da Jeffrey T. Schnapp. La complessità inquieta di Marinetti emerge tutta dai lavori teatrali e ne trasmette anche aspetti di straordinaria intuizione storica. Non è certo una parte da sottovalutare nell”eredita del futurismo. E ciò perchè vedeva la luce in un”epoca che si stava aprendo alle grandi comunicazioni di massa. E se per Marinetti la natura e la funzione della tecnologia  sono le stesse dell”arte, i media in evoluzione corrispondono nel suo pensiero ad un mix di invenzione e di innovazione che coniuga conoscenza scientifica e poesia secondo un modello dialettico e costruttivo nella contraddizione che è alla base della nuova umanità.  E proprio per questo che la teatralità diventa in Marinetti concorrente alle altre forme della rappresentazione ad essa rivali. Il pubblico specificamente marinettiano, che si era dissolto al termine della seconda guerra mondiale, sembra ricompattarsi intorno all”idea di un autore che sta recuperando importanza alla luce della rivoluzione informatica e del prevalere della rete. Casalino Pierluigi, 4.02. 2015

LA TEATRALITA” DI MARINETTI. Il compito di rendere accessibile e di chiara lettura la produzione teatrale di Filippo Tommaso Marinetti al pubblico di oggi non è mai facile come non facile è, del resto, la personalità del suo autore. Esistono tuttavia edizioni moderne dell”opera teatrale di Marinetti in grado di comunicarne il messaggio nel modo più adeguato e all”altezza alla cifra creativa del fondatore del Futurismo, oltre che in sintonia con i tempi. Tra queste quella assai felice, curata una decina di anni fa da Mondadori da Jeffrey T. Schnapp. La complessità inquieta di Marinetti emerge tutta dai lavori teatrali e ne trasmette anche aspetti di straordinaria intuizione storica. Non è certo una parte da sottovalutare nell”eredita del futurismo. E ciò perchè vedeva la luce in un”epoca che si stava aprendo alle grandi comunicazioni di massa. E se per Marinetti la natura e la funzione della tecnologia sono le stesse dell”arte, i media in evoluzione corrispondono nel suo pensiero ad un mix di invenzione e di innovazione che coniuga conoscenza scientifica e poesia secondo un modello dialettico e costruttivo nella contraddizione che è alla base della nuova umanità. E proprio per questo che la teatralità diventa in Marinetti concorrente alle altre forme della rappresentazione ad essa rivali. Il pubblico specificamente marinettiano, che si era dissolto al termine della seconda guerra mondiale, sembra ricompattarsi intorno all”idea di un autore che sta recuperando importanza alla luce della rivoluzione informatica e del prevalere della rete. Casalino Pierluigi, 4.02. 2015

EUROPA. Un ricorrente tema pervade gli studi degli storici d’Europa, quello sulla coscienza e sull’estensione e sull’interagire tra di esse. Tema che affiora nel dibattito europeo in modo compiuto nel XVIII secolo. E gli uomini del Settecento furono i primi a coltivare questo pensiero, anche se, a mio avviso erroneamente, alcuni ritengono che considerazioni simili saranno formulate solo nel XIX secolo. Tesi quest’ultima, abbracciata anche dal Morandi, appare, in ultima analisi, assolutamente inaccettabile, Voltaire escludeva dalla “Europa spirituale” la penisola balcanica, allora sottomessa ai turchi, e vi includeva, invece, la Russia, quella Russia lontana ed enigmatica, come tutte le Russie di ogni tempo, pressoché sconosciuta dai popoli europei fono all’epoca di Pietro il Grande, che portò idee e costumi europei al suo paese, dopo secoli di dispotismo. Il giudizio di Voltaire anticipava di molto il passo della Russia, stante l’ottima relazione tra gli illuministi e la grande zarina Caterina: un processo di occidentalizzazione che verrà messo in causa dalle correnti slavofile e grandi-russe del XIX secolo, segnale di quel ripiegamento messianico.ideologiche che fu rappresentato dalla Russia sovietica. E nonostante ciò, la Russia rimase ancora, per allora, in fase passiva, accettando le influenze occidentali, ma dando poco del suo. Un contributo che, al contrario, i popoli europei tradizionali, pur nei contrasti, sanno dare reciprocamente. La Russia del Settecento non diede migliore prova di sé anche dopo il Congresso di Vienna, lasciando intendere che restava ancora a metà tra la civiltà europea e il genio asiatico, questione tuttora aperta in epoca post-sovietica. Se è vero, peraltro che la Russia prese coscienza del suo ruolo attivo, almeno nell’Europa centrale, e sia sentita parte di tale sensibilità, si arriverà al XIX secolo, quando i nomi di scrittori come Tolstoj e Dostoevskij divennero nomi comuni anche per l’opinione pubblica dell’intero Vecchio Continente. Una testimonianza di come e quanto l’Europa si ampliasse dalla stessa intuizione settecentesca sia in termini quantitativi che qualitativi.  Circa, infine, la posizione dell’Italia, in secondo piano nel Settecento, nonostante Giambattista Vico, enormemente più avanti del suo tempo, va onestamente detto che, se la Penisola e la Russia (Voltaire) erano unite per le lettere, l’Italia soffriva di una condizione arretrata culturalmente e democraticamente. Il contributo dell’Italia alla sensibilità europea nel XVIII secolo e fino ai primi decenni del XIX fu, in fondo, assai modesto, aldilà di studiosi come Vico, appunto e poi di Carlo Cattaneo.  Casalino Pierluigi, 24.02.2015

EUROPA. Un ricorrente tema pervade gli studi degli storici d’Europa, quello sulla coscienza e sull’estensione e sull’interagire tra di esse. Tema che affiora nel dibattito europeo in modo compiuto nel XVIII secolo. E gli uomini del Settecento furono i primi a coltivare questo pensiero, anche se, a mio avviso erroneamente, alcuni ritengono che considerazioni simili saranno formulate solo nel XIX secolo. Tesi quest’ultima, abbracciata anche dal Morandi, appare, in ultima analisi, assolutamente inaccettabile, Voltaire escludeva dalla “Europa spirituale” la penisola balcanica, allora sottomessa ai turchi, e vi includeva, invece, la Russia, quella Russia lontana ed enigmatica, come tutte le Russie di ogni tempo, pressoché sconosciuta dai popoli europei fono all’epoca di Pietro il Grande, che portò idee e costumi europei al suo paese, dopo secoli di dispotismo. Il giudizio di Voltaire anticipava di molto il passo della Russia, stante l’ottima relazione tra gli illuministi e la grande zarina Caterina: un processo di occidentalizzazione che verrà messo in causa dalle correnti slavofile e grandi-russe del XIX secolo, segnale di quel ripiegamento messianico.ideologiche che fu rappresentato dalla Russia sovietica. E nonostante ciò, la Russia rimase ancora, per allora, in fase passiva, accettando le influenze occidentali, ma dando poco del suo. Un contributo che, al contrario, i popoli europei tradizionali, pur nei contrasti, sanno dare reciprocamente. La Russia del Settecento non diede migliore prova di sé anche dopo il Congresso di Vienna, lasciando intendere che restava ancora a metà tra la civiltà europea e il genio asiatico, questione tuttora aperta in epoca post-sovietica. Se è vero, peraltro che la Russia prese coscienza del suo ruolo attivo, almeno nell’Europa centrale, e sia sentita parte di tale sensibilità, si arriverà al XIX secolo, quando i nomi di scrittori come Tolstoj e Dostoevskij divennero nomi comuni anche per l’opinione pubblica dell’intero Vecchio Continente. Una testimonianza di come e quanto l’Europa si ampliasse dalla stessa intuizione settecentesca sia in termini quantitativi che qualitativi. Circa, infine, la posizione dell’Italia, in secondo piano nel Settecento, nonostante Giambattista Vico, enormemente più avanti del suo tempo, va onestamente detto che, se la Penisola e la Russia (Voltaire) erano unite per le lettere, l’Italia soffriva di una condizione arretrata culturalmente e democraticamente. Il contributo dell’Italia alla sensibilità europea nel XVIII secolo e fino ai primi decenni del XIX fu, in fondo, assai modesto, aldilà di studiosi come Vico, appunto e poi di Carlo Cattaneo. Casalino Pierluigi, 24.02.2015

EUROPA E TOTALITARISMO. Spesso ci si è chiesto e ci si chiede oggi ancora di più (in presenze di rinnovate minacce) se l”Occidente sia in grado di impedire lo sviluppo di un sistema schiavistico-burocratico o peggio di un sistema totalitario di diverso e più accentuato asservimento, di questa o quell”altra natura. La storia della Russia pre-bolscevica (e forse, ma con riserva, anche quella post-sovietica) mostra che paesi di tipo orientale che sono indipendenti  e in stretto contatto con l”Occidente possono vigorosamente avviarsi verso la realizzazione di una società democratica e policentrica. Tuttavia la condizione dell”Occidente non è più in grado di promuovere tale processo liberante, anche a causa delle innumerevoli compromissioni con società di tipo dispotico, fondate sulla tradizione asiatica o orientale. Salvo alcune eccezioni, come l”India (almeno nelle apparenze), il Giappone (ed altri minori), paesi orientali , ma moderni e democratici nelle loro istituzioni rappresentative, il resto dei paesi obbedisce a forme tendenzialmente dispotiche, non democratiche e non pluraliste. Un processo di cambiamento serio, se pur lento, cerca di cominciare, ma incontra ostacoli e rallentamenti, se non addirittura pericolosamente in contro tendenza. Nel frattempo sorgono e si consolidano organismi non statali, gruppi di privati, che puntano a creare nuove forme di stato sovranazionali, come è d”esempio il fanatico califfato islamista. Il rischio che queste oligarchie élitarie e tiranniche si trasformino in organizzazioni di massa , tramite il reclutamento di soggetti sul piano transfrontaliero nel nome di un Islam di contrasto ai valori della modernità e dell”idea di democrazia e di tolleranza. In altri termini un movimento che mira a minare alla base il senso stesso della civiltà occidentale. Forse nella speranza di evocare reazioni sempre più dure e giustificare così nuove e più efferate gesta di sfida alla pacifica convivenza civile. L”Occidente deve quindi fare un esame di coscienza molto serio e riflettere sulle ragioni di questa deriva, spesso ricondotta a responsabilità dello stesso Occidente (nel quadro delle scelte delle alleanze), in vista di una riaffermazione di quei principi che difendono tutti e tutto e non una parte sola di tutto. Il margine di tempo va già riducendosi e pertanto l”Occidente deve assumere un atteggiamento cosciente e chiaro nei confronti dei vecchi e nuovi totalitarismi. In che modo possiamo fidarci di maestri e di politici occidentali che non comprendono a pieno il significato del nostro lascito culturale e si addormentano nella vana speranza che sorga un nuovo Leone Magno che si porti direttamente davanti ad Attila per fermarlo.  L”atteggiamento dell”Occidente non sembra ancora sufficientemente cosciente e chiaro, dimenticando che in questo modo, nella situazione di emergenza, si andrà a suscitare un contro-totalitarismo che potrebbe mettere in causa le conquiste di milioni di cittadini del Vecchio Continente e dell”intero mondo libero.  E se è vero che da tale cecità si potrebbe arrivare al “cives ad arma ruant”, è anche vero che senza un risveglio dell”amore della libertà, il cieco nuovo totalitarismo finirebbe per assestare un colpo mortale alla nostra civiltà. Ma se l”ambito della libertà andrà rapidamente restringendosi in conseguenze del pericolo totalitario fanatico, andrà pero crescendo il desiderio di difenderlo e di espanderlo in quelle società dove ha facile e fertile terreno. Costretti dalla forza degli eventi, possiamo, per concludere, trasformare la sconfitta in vittoria. Soccorrono a questo punto le parole che, secondo Erodoto,  i messaggeri spartani Spertia e Buli pronunciarono, in risposta al dignitario persiano Idarne, che prometteva loro di renderli potenti se si fossero schierati con il Gran Re,suo dispotico padrone: Idarne, dissero, tu sei consigliere unilaterale. Tu hai esperienza di mezza realtà soltanto e ignori l”altra metà. Tu conosci la vita dello schiavo, ma non avendo mai provato la libertà, non puoi dire se essa sia dolce o no. Ah se tu sapessi cos”è la libertà, ci avresti invitati a batterci per essa, con solo con la lancia, ma anche con l”ascia”. Casalino Pierluigi, 20.02.1015

EUROPA E TOTALITARISMO. Spesso ci si è chiesto e ci si chiede oggi ancora di più (in presenze di rinnovate minacce) se l”Occidente sia in grado di impedire lo sviluppo di un sistema schiavistico-burocratico o peggio di un sistema totalitario di diverso e più accentuato asservimento, di questa o quell”altra natura. La storia della Russia pre-bolscevica (e forse, ma con riserva, anche quella post-sovietica) mostra che paesi di tipo orientale che sono indipendenti e in stretto contatto con l”Occidente possono vigorosamente avviarsi verso la realizzazione di una società democratica e policentrica. Tuttavia la condizione dell”Occidente non è più in grado di promuovere tale processo liberante, anche a causa delle innumerevoli compromissioni con società di tipo dispotico, fondate sulla tradizione asiatica o orientale. Salvo alcune eccezioni, come l”India (almeno nelle apparenze), il Giappone (ed altri minori), paesi orientali , ma moderni e democratici nelle loro istituzioni rappresentative, il resto dei paesi obbedisce a forme tendenzialmente dispotiche, non democratiche e non pluraliste. Un processo di cambiamento serio, se pur lento, cerca di cominciare, ma incontra ostacoli e rallentamenti, se non addirittura pericolosamente in contro tendenza. Nel frattempo sorgono e si consolidano organismi non statali, gruppi di privati, che puntano a creare nuove forme di stato sovranazionali, come è d”esempio il fanatico califfato islamista. Il rischio che queste oligarchie élitarie e tiranniche si trasformino in organizzazioni di massa , tramite il reclutamento di soggetti sul piano transfrontaliero nel nome di un Islam di contrasto ai valori della modernità e dell”idea di democrazia e di tolleranza. In altri termini un movimento che mira a minare alla base il senso stesso della civiltà occidentale. Forse nella speranza di evocare reazioni sempre più dure e giustificare così nuove e più efferate gesta di sfida alla pacifica convivenza civile. L”Occidente deve quindi fare un esame di coscienza molto serio e riflettere sulle ragioni di questa deriva, spesso ricondotta a responsabilità dello stesso Occidente (nel quadro delle scelte delle alleanze), in vista di una riaffermazione di quei principi che difendono tutti e tutto e non una parte sola di tutto. Il margine di tempo va già riducendosi e pertanto l”Occidente deve assumere un atteggiamento cosciente e chiaro nei confronti dei vecchi e nuovi totalitarismi. In che modo possiamo fidarci di maestri e di politici occidentali che non comprendono a pieno il significato del nostro lascito culturale e si addormentano nella vana speranza che sorga un nuovo Leone Magno che si porti direttamente davanti ad Attila per fermarlo. L”atteggiamento dell”Occidente non sembra ancora sufficientemente cosciente e chiaro, dimenticando che in questo modo, nella situazione di emergenza, si andrà a suscitare un contro-totalitarismo che potrebbe mettere in causa le conquiste di milioni di cittadini del Vecchio Continente e dell”intero mondo libero. E se è vero che da tale cecità si potrebbe arrivare al “cives ad arma ruant”, è anche vero che senza un risveglio dell”amore della libertà, il cieco nuovo totalitarismo finirebbe per assestare un colpo mortale alla nostra civiltà. Ma se l”ambito della libertà andrà rapidamente restringendosi in conseguenze del pericolo totalitario fanatico, andrà pero crescendo il desiderio di difenderlo e di espanderlo in quelle società dove ha facile e fertile terreno. Costretti dalla forza degli eventi, possiamo, per concludere, trasformare la sconfitta in vittoria. Soccorrono a questo punto le parole che, secondo Erodoto, i messaggeri spartani Spertia e Buli pronunciarono, in risposta al dignitario persiano Idarne, che prometteva loro di renderli potenti se si fossero schierati con il Gran Re,suo dispotico padrone: Idarne, dissero, tu sei consigliere unilaterale. Tu hai esperienza di mezza realtà soltanto e ignori l”altra metà. Tu conosci la vita dello schiavo, ma non avendo mai provato la libertà, non puoi dire se essa sia dolce o no. Ah se tu sapessi cos”è la libertà, ci avresti invitati a batterci per essa, con solo con la lancia, ma anche con l”ascia”. Casalino Pierluigi, 20.02.1015

IL RITORNO DELLO SPIRITO CRITICO. Forse non c’è mai stato un momento storico in cui la parola si è consumata nel turbinio quotidiano dell’esondazione mediatica e a tutt’oggi per retorica (l’arte nobile del parlare così nota a chi proviene dagli studi classici e non solo) s’intende l’esercizio fatuo e e vacuo del bla-bla politico, o ancora peggio ai giorni nostri all’uso negativo della retorica stessa (a fini estremistici) si accoppia all’adozione, in senso spregiativo, del termine accademico, da intendersi come inutile ed astratto, che in sé contiene un giudizio negativo.Non è a questa retorica o sistema di parlare che ci si riferisce, dunque, ma all’espressione verbale di un ragionamento in cui non ci si accontenta di contrapporre affermazioni concorrenti, ma di avanzare insieme nel pensiero o anzi nel senso critico, un patrimonio che si sta perdendo con danni incommensurabile per la civiltà. In un’epoca in cui abbiamo più informazioni di quante possiamo trattare, più stimoli di quanti possiamo digerire , tornare al ragionamento critico è basilare, necessariamente basilare. Soprattutto in una fase in cui si propagano conflitti  umani profondamente subdoli e devastanti, insegnare, educare ed allenare un pensiero critico non è per nulla esercizio retorico, ma riconquista intellettuale primaria che comporta un’aperta riflessione sulla tristezza dell’esercizio del soliloquio e invece sulla ricchezza feconda dell’esercizio della comprensione come pietra angolare della reciproca comprensione e della lotta contro ogni unilaterale fanatismo.   Casalino Pierluigi, 8.02.2015

IL RITORNO DELLO SPIRITO CRITICO. Forse non c’è mai stato un momento storico in cui la parola si è consumata nel turbinio quotidiano dell’esondazione mediatica e a tutt’oggi per retorica (l’arte nobile del parlare così nota a chi proviene dagli studi classici e non solo) s’intende l’esercizio fatuo e e vacuo del bla-bla politico, o ancora peggio ai giorni nostri all’uso negativo della retorica stessa (a fini estremistici) si accoppia all’adozione, in senso spregiativo, del termine accademico, da intendersi come inutile ed astratto, che in sé contiene un giudizio negativo.Non è a questa retorica o sistema di parlare che ci si riferisce, dunque, ma all’espressione verbale di un ragionamento in cui non ci si accontenta di contrapporre affermazioni concorrenti, ma di avanzare insieme nel pensiero o anzi nel senso critico, un patrimonio che si sta perdendo con danni incommensurabile per la civiltà. In un’epoca in cui abbiamo più informazioni di quante possiamo trattare, più stimoli di quanti possiamo digerire , tornare al ragionamento critico è basilare, necessariamente basilare. Soprattutto in una fase in cui si propagano conflitti umani profondamente subdoli e devastanti, insegnare, educare ed allenare un pensiero critico non è per nulla esercizio retorico, ma riconquista intellettuale primaria che comporta un’aperta riflessione sulla tristezza dell’esercizio del soliloquio e invece sulla ricchezza feconda dell’esercizio della comprensione come pietra angolare della reciproca comprensione e della lotta contro ogni unilaterale fanatismo. Casalino Pierluigi, 8.02.2015

VINO E DINTORNI. L”introduzione della vigna è sempre stata accompagnata da episodi tragici e sanguinosi, da crimini e persino da patetici malintesi. Aldilà delle diverse narrazioni dei miti, la scoperta e lo sfruttamento della vite presenta grandi contraddizioni. Considerata l”origine divina della vigna e dei suoi frutti, molte sono le divinità coinvolte in in ogni tempo e in ogni luogo nella rivelazione di essa e negli insegnamenti volti a conoscerne meglio le qualità. Di tutte queste divinità la più nota è Dioniso, figlio di Zeus, il Giove dei latini, e di Semele. Colui che inventò l”ebbrezza e il piacere del bere. Per etimologia il nome del dio significa “nato due volte”, perché a causa della morte prematura della madre in cinta di lui e folgorata dallo splendore dell”amante, il feto di Dioniso fu raccolto da Zeus e fatto nascere al compimento del tempo della gestazione. Perseguitato dalla gelosia di Era (la Giunone dei latini), sposa Zeus, per l”ultimo tradimento della serie del re dell”Olimpo, Dioniso venne nascosto in una località montana ai confini dell”India (e là si evocano leggende in sintonia con quella greca). Allevato dalle ninfe dei boschi, il dio crebbe circondato da satiri, sileni e baccanti, vero e proprio folle corteo di ebbri e dalla mente devastata, in grado di terrorizzare e suscitare ostilità, piuttosto che entusiasmo. Dovunque Dioniso passava provocava eccidi e disordini. Il senso del mito è quello di dimostrare il potere ambiguo del vino e dell”ebbrezza. Un dono divino che rischia di sprofondare l”uomo nella perdita della dignità e nella rovina. Come godere dunque della civiltà del bere, evitandone gli effetti perversi (anche per rendere meno dura la crisi del nostro tempo e la ottusa austerità che ci tiranneggia) è questione d”attualità. Quando viene meno la misura, l”intelligenza è travolta da demoni mostruosi, che oscurano la dignità. La famiglia di questi demoni è popolata dai fantasmi dell”estremismo e del fanatismo, dell”incontinenza, dell”eclissi della ragione. Proprio per tale ragione il re Licurgo di Tracia voleva distruggere la vigna, pianta ritenuta malefica. Il dio finì per colpirlo con la pazzia. Tra le credenze dell”Ellade c”era un”altra credenza curiosa sull”origine della pianta della vite, oltre a quell”altra della sua prima coltivazione nel Caucaso, terra delle Amazzoni: tale credenza si collega ad Oreste, figlio di Deucalione e Pirra. Un giorno Oreste vide un cane addormentato, dopo aver morsicato un alberello. Interrò un ramo dell”alberello e ottenne una pianta di vigna con grossi grappoli. Questa fonte richiama quella biblica di Noè, inventore della vite secondo la tradizione giudaico-cristiana. Nacque in tal modo una bevanda capace di risollevare lo spirito e ispirare i poeti. Anche nel mondo islamico, nonostante gli apparenti divieti (e a leggere bene il Corano emergono persino palesi contraddizioni tra il divieto e la liceità nei detti del Profeta Maometto), la vite infiammò artisti come Omar Khayyam, matematico e lirico persiano o Abu Naws, capofila dei poeti gaudenti del mondo musulmano. Il vino era una bevanda certamente di prerogativa degli dei, poi ad essi rapita. Un bicchiere di vino non può ormai mancare sulla tavola e, soprattutto nelle grandi occasioni, Un”idea in più che ritrova il suo culmine nell”entusiasmo di una coppa di champagne. Del resto, chi non rischia, dice un proverbio russo, non berrà mai champagne. Non vengono, peraltro, meno le rischiose ambiguità di quello che un tempo veniva definito il liquore degli dei.  Casalino Pierluigi, 6.02.2015

VINO E DINTORNI. L”introduzione della vigna è sempre stata accompagnata da episodi tragici e sanguinosi, da crimini e persino da patetici malintesi. Aldilà delle diverse narrazioni dei miti, la scoperta e lo sfruttamento della vite presenta grandi contraddizioni. Considerata l”origine divina della vigna e dei suoi frutti, molte sono le divinità coinvolte in in ogni tempo e in ogni luogo nella rivelazione di essa e negli insegnamenti volti a conoscerne meglio le qualità. Di tutte queste divinità la più nota è Dioniso, figlio di Zeus, il Giove dei latini, e di Semele. Colui che inventò l”ebbrezza e il piacere del bere. Per etimologia il nome del dio significa “nato due volte”, perché a causa della morte prematura della madre in cinta di lui e folgorata dallo splendore dell”amante, il feto di Dioniso fu raccolto da Zeus e fatto nascere al compimento del tempo della gestazione. Perseguitato dalla gelosia di Era (la Giunone dei latini), sposa Zeus, per l”ultimo tradimento della serie del re dell”Olimpo, Dioniso venne nascosto in una località montana ai confini dell”India (e là si evocano leggende in sintonia con quella greca). Allevato dalle ninfe dei boschi, il dio crebbe circondato da satiri, sileni e baccanti, vero e proprio folle corteo di ebbri e dalla mente devastata, in grado di terrorizzare e suscitare ostilità, piuttosto che entusiasmo. Dovunque Dioniso passava provocava eccidi e disordini. Il senso del mito è quello di dimostrare il potere ambiguo del vino e dell”ebbrezza. Un dono divino che rischia di sprofondare l”uomo nella perdita della dignità e nella rovina. Come godere dunque della civiltà del bere, evitandone gli effetti perversi (anche per rendere meno dura la crisi del nostro tempo e la ottusa austerità che ci tiranneggia) è questione d”attualità. Quando viene meno la misura, l”intelligenza è travolta da demoni mostruosi, che oscurano la dignità. La famiglia di questi demoni è popolata dai fantasmi dell”estremismo e del fanatismo, dell”incontinenza, dell”eclissi della ragione. Proprio per tale ragione il re Licurgo di Tracia voleva distruggere la vigna, pianta ritenuta malefica. Il dio finì per colpirlo con la pazzia. Tra le credenze dell”Ellade c”era un”altra credenza curiosa sull”origine della pianta della vite, oltre a quell”altra della sua prima coltivazione nel Caucaso, terra delle Amazzoni: tale credenza si collega ad Oreste, figlio di Deucalione e Pirra. Un giorno Oreste vide un cane addormentato, dopo aver morsicato un alberello. Interrò un ramo dell”alberello e ottenne una pianta di vigna con grossi grappoli. Questa fonte richiama quella biblica di Noè, inventore della vite secondo la tradizione giudaico-cristiana. Nacque in tal modo una bevanda capace di risollevare lo spirito e ispirare i poeti. Anche nel mondo islamico, nonostante gli apparenti divieti (e a leggere bene il Corano emergono persino palesi contraddizioni tra il divieto e la liceità nei detti del Profeta Maometto), la vite infiammò artisti come Omar Khayyam, matematico e lirico persiano o Abu Naws, capofila dei poeti gaudenti del mondo musulmano. Il vino era una bevanda certamente di prerogativa degli dei, poi ad essi rapita. Un bicchiere di vino non può ormai mancare sulla tavola e, soprattutto nelle grandi occasioni, Un”idea in più che ritrova il suo culmine nell”entusiasmo di una coppa di champagne. Del resto, chi non rischia, dice un proverbio russo, non berrà mai champagne. Non vengono, peraltro, meno le rischiose ambiguità di quello che un tempo veniva definito il liquore degli dei. Casalino Pierluigi, 6.02.2015